L'angolo delle Riflessioni

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Le illusioni e la speranza


La fine dell’anno, come sempre, ti spinge a fare bilanci. Reduce dai bagordi natalizi, dal pranzo di S. Stefano, dal cenone dell’ultimo dell’anno, arriva quel momento in cui ti siedi, cerchi di riordinare le idee e ti viene spontaneo chiederti che cosa ne è stato delle tue speranze, dei tuoi progetti, delle aspettative che ti eri fatto.
Quest’anno, forse con la complicità di qualche bicchiere di troppo, mi è capitato di pensare a un bilancio collettivo; mi sono chiesto, insomma, a che punto siamo arrivati in quest’epoca che tutti chiamano post-industriale, post-informatica, post-nazionale e post-tutto.
Non mi illudo di poter comprendere le dinamiche di quella grande macchina che è la società umana, e non mi interessa ragionare sui massimi sistemi che reggono le sorti del mondo.
Di gente che parla a vanvera ce n’è già tanta.
Quello che posso fare è riportare le mie impressioni, le impressioni di un venticinquenne che si trova ad essere già disilluso.
Perché l’impressione che ho è che la storia degli ultimi decenni sia il trionfo della disillusione.

Ci siamo illusi di poter crescere senza sosta. Abbiamo visto l’economia galoppare per anni e abbiamo creduto che sarebbe stato sempre così, che tutto sarebbe sempre andato per il meglio, che ci sarebbe stato sempre e solo il segno più, un segno che è scomparso tanto dagli indicatori di benessere nazionali quanto, più drammaticamente, dai conti correnti di molti lavoratori.
Ci siamo illusi di poter dare a tutti la cultura, di innalzare il livello di istruzione, ma da anni non si parla che di tagli alla scuola e all’università, tagli che riguardano tanto i fondi quanto i programmi didattici.
Ci siamo illusi, dopo gli scandali degli anni ’90, che forse davvero la legge sarebbe stata uguale per tutti, ma abbiamo eletto un Presidente del Consiglio che le leggi le fa e le disfa come vuole, invocando l’immunità come fosse un diritto nobiliare.
Ci siamo illusi che i nostri figli potessero trovare il loro posto nel mondo, con un lavoro e una famiglia. Andate a dirlo a un precario che vive con ottocento euro al mese, di chiedere un mutuo per la casa o di pensare a un figlio.
Ci siamo illusi di poter vivere in pace, ma in Darfur, in Cambogia e in tanti altri luoghi dimenticati da quelle scatole luminose che chiamiamo televisioni, la gente continua a morire. E, peggio, l’abbiamo portata noi occidentali, la guerra, in Afghanistan come in Iraq.
Ci siamo illusi di poter salvaguardare il nostro pianeta, di proteggere la Madre Terra, ma il protocollo di Kyoto sembra che l’abbiano dimenticato tutti e le catastrofi ambientali, annunciate o sconosciute, si susseguono.
Ci siamo illusi di poter rendere dignitoso il mondo del lavoro, ma il lavoro per molti non c’è e per gli altri lavorare , spesso, significa rischiare la vita.
Ci siamo illusi di poter vivere in pace con chi è diverso da noi, ci siamo riempiti la bocca di parole come tolleranza ed accoglienza, ma da quasi dieci anni vediamo affrontarsi gli estremismi opposti di chi pretende di sterminare gli infedeli e di chi vuole esportare la democrazia con le bombe a grappolo. E, senza andare troppo lontano da questa Italietta gretta, ipocrita e provinciale, ci siamo scelti un capo del Governo che ironizza su omosessuali e coppie di fatto.

Non viviamo in un mondo migliore, insomma, e qualcuno di noi inizia a pensare che forse un mondo migliore non è più possibile.
È triste pensarla così ed è ancora più triste arrivare a queste conclusioni a venticinque anni, quando, almeno secondo il senso comune, la vita dovrebbe sorriderti.
Mi chiedo, sapendo bene di non poter dare una risposta definitiva, che cosa si può fare per invertire questa tendenza preoccupante al pessimismo. Me lo chiedo senza la pretesa di poter esaurire argomenti così vasti, perché so di non averne la capacità, come non ce la può avere nessun essere umano, nonostante i proclami altisonanti di certi politici.
Una tentativo di risposta, però provo a darlo.
Credo che prima di tutto serva un po’ più di realismo. Bisogna accettare le proprie sconfitte, ammettere che non siamo riusciti a rendere il mondo un posto migliore. Bisogna riflettere sui propri sbagli, e nella nostra politica questo vale soprattutto per la sinistra, che obiettivamente non è stata capace di affrontare il crollo degli ideali su cui ha edificato le proprie azioni.
È inutile e dannoso guardare al Capitale di Marx come a un modello concreto per la società attuale. È pericoloso almeno quanto lo è stato, da parte degli speculatori di cui tanto si parla in questi mesi, credere ciecamente nel principio capitalistico della crescita indefinita.
Credo che il realismo, condito con una buona dose di umiltà, possa portare la sinistra a definire una propria identità positiva e capace di rapportarsi alla situazione odierna. Un’identità positiva nel senso di un’identità definita e concreta, che rilegga il passato del Capitale e della lotta di classe in maniera razionale e obiettiva.
Serve una sinistra capace di definire i propri valori in maniera chiara, e senza anacronismi.
Serve una sinistra che si faccia portavoce di chi, come me, spera che ci sia ancora posto per valori come la giustizia sociale, la cultura e il rispetto della diversità; una sinistra che combatta per questi valori restando ancorata alla realtà di un mondo che non è più quello degli anni ’70.
Serve una sinistra che abbia il buon senso di riconoscere che il mondo del lavoro è cambiato e che la flessibilità è un dato di fatto. Perché solo accettando questi cambiamenti si potrà lottare concretamente per un lavoro che sia flessibile e dignitoso piuttosto che precario e ricattabile.
Serve una sinistra che non difenda la cultura solo a parole, ma che metta la cultura all’interno della propria azione, formando dei politici capaci di andare al di là degli slogan; dei politici che, a differenza di quasi tutti quelli che si sentono in tv, dicano qualcosa quando parlano.
Serve una sinistra che non accetti semplicemente le diversità di etnia, religione o orientamento sessuale, ma che faccia della conoscenza dell’altro e di se stessi un valore fondante e imprescindibile.

Serve una sinistra che agisca pragmaticamente e senza pregiudizi condizionati dal proprio passato. Una sinistra che sia abbastanza umile da sapersi confrontare con un mondo diverso da quello di ieri, e abbastanza forte da non abbandonare i propri principi.
Una sinistra, in definitiva, capace di ridare una speranza a chi in quei principi crede ancora, anche se li vede calpestati ogni giorno in un mondo in cui trionfano razzisti e bigotti,caimani e sfruttatori.

                                                                                                                           
                                                                          Mario Favini



IL MONDO CHE VOGLIAMO


Crediamo nella eguaglianza di tutti gli esseri umani a prescindere dalle opinioni, dal sesso, dalla razza,dalla appartenenza etnica, politica, religiosa, dalla loro condizione sociale ed economica.
Ripudiamo la violenza, il terrorismo e la guerra come strumenti per risolvere le contese tra gli uomini,i popoli e gli stati. Vogliamo un mondo basato sulla giustizia sociale, sulla solidarietà,sul rispetto reciproco, sul dialogo, su un’equa distribuzione delle risorse.
Vogliamo un mondo in cui i governi garantiscano l’eguaglianza di base di tutti i membri della società,il diritto a cure mediche di elevata qualità e gratuite, il diritto a una istruzione pubblica che sviluppi la persona umana e ne arricchisca le conoscenze, il diritto a una libera informazione.
Nel nostro Paese assistiamo invece, da molti anni, alla progressiva e sistematica demolizione di ogni principio di convivenza civile. Una gravissima deriva di barbarie è davanti ai nostri occhi.
In nome delle “alleanze internazionali”, la classe politica italiana ha scelto la guerra e l’aggressione di altri Paesi.
In nome della “libertà”, la classe politica italiana ha scelto la guerra contro i propri cittadini costruendo un sistema di privilegi, basato sull’esclusione e sulla discriminazione,un sistema di arrogante prevaricazione, di ordinaria corruzione.
In nome della “sicurezza”, la classe politica italiana ha scelto la guerra contro chi è venuto in Italia per sopravvivere, incitando all’odio e al razzismo.
È questa una democrazia? Solo perché include tecniche elettorali di rappresentatività?
Basta che in un Paese si voti perché lo si possa definire “democratico”?
Noi consideriamo democratico un sistema politico che lavori per il bene comune privilegiando nel proprio agire i bisogni dei meno abbienti e dei gruppi sociali più deboli, per migliorarne le condizioni di vita, perché si possa essere una società di cittadini.
È questo il mondo che vogliamo. Per noi, per tutti noi. Un mondo di eguaglianza.

                                              
                                                                             Emercency

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