giovedì 23 febbraio 2012

Don Gallo a Borgomanero

 
Don Gallo sarà a Borgomanero Venerdì 24 Febbraio 2012 alle ore 19.00 in piazza San Gottardo per sostenere  Manuel Cerutti alle primarie per il Candidato Sindaco nelle elezioni comunali.
Visto il risultato ottenuto da Marco Doria , sostenuto a Genova da Don Gallo, si spera che Manuel ce la possa fare!
Stasera 23 Febbraio alle ore 21.00 presso la SOMS di Borgomanero i 2 candidati  alle Primarie Cerutti e Pastore presenteranno i loro programmi alla cittadinanza.
Noi sosteniamo Emanuele Cerutti.

Ecco il male degli Italiani

Casini sta con Maroni 
Se appoggiano il governo Monti incondizionatamente per non far saltare il tavolo,
 a che servono? A quando: "Rompete le righe!" ? A noi, cari politici, avete già rotto altro.

giovedì 16 febbraio 2012

Questi democratici pidiellini.......!Che tristezza

Bocciata dal referendum, la privatizzazione dell’acqua rispunta nel pacchetto Monti
Emendamenti "bipartisan" puntano a rimettere sul mercato i servizi idrici, nonostante l'esito opposto del voto. A guidare l'assalto al Senato, Enzo Ghigo (Pdl) e i democratici Morando e Bosone
Negli emendamenti al decreto privatizzazioni presentati in Senato nei giorni scorsi si nasconde il tentativo – sostenuto soprattutto dal Pdl – di riproporre, ancora una volta, la privatizzazione dell’acqua. La discussione sul pacchetto Monti – che dovrà essere convertito in legge nei prossimi giorni – è la ghiotta occasione per garantire ai grandi gruppi multinazionali dei servizi, veri giganti finanziari, l’apertura del mercato italiano dei beni comuni.

La battaglia parlamentare si sta giocando sull’articolo 25 del decreto Monti, che ha dato seguito agli ultimi provvedimenti sulla privatizzazione dei servizi pubblici locali del governo Berlusconi. Qui si parla di cultura, di trasporto, di reti e di acqua. Servizi che le stesse grandi corporation chiamano “l’essenziale per la vita”. Per ora nelle due sedute della commissione Bilancio del Senato questo nodo cruciale non è stato ancora affrontato. I lavori di discussione degli emendamenti proseguirà nei prossimi giorni.

La complessa legge sulle liberalizzazioni ha la struttura di una matrioska. Per quanto riguarda i servizi pubblici locali le norme rimandano sostanzialmente al decreto sviluppo del governo Berlusconi, che a sua volta richiama il pacchetto anticrisi varato il 13 agosto. Come dei novelli alchimisti, i senatori hanno dato sfogo alla fantasia, colpendo virgole, singole parole, pezzi di frasi che apparentemente sembrano innocue. In realtà all’interno delle centinaia di pagine depositate in commissione Industria ci sono vere e proprie trappole mortali. E, spesso, incostituzionali, considerando che su questo tema si è svolto un referendum popolare.

Degni di nota sono tre emendamenti, che puntano alla privatizzazione forzata dell’acqua. L’articolo quattro del decreto 138 di Ferragosto introduceva in sostanza l’obbligo per i comuni di cedere ai privati le aziende ancora pubbliche incaricate di gestire i servizi pubblici. In quell’articolo, nell’ultimo comma, il governo escludeva però il servizio idrico dalla ventata di privatizzazioni. Almeno tre emendamenti presentati oggi in Senato puntano ad eliminare questa esclusione, con il conseguente obbligo di cessione della gestione degli acquedotti ai privati.

Particolarmente attivo in questo senso è il senatore del Pdl Enzo Ghigo, firmatario degli emendamenti 25.62 e 25.119. Nel primo emendamento, Ghigo gioca con le parole, parlando di liberalizzazione del servizio idrico, per evitare la parola privatizzazione, da attuare – scrive – “solo qualora l’iniziativa pubblica non risulti idonea a garantire i bisogni della comunità”. Nell’emendamento 25.119 il discorso è invece più diretto: il comma 34 dell’articolo quattro sulle privatizzazioni – richiamato e incluso nel decreto Monti – viene radicalmente cambiato, eliminando l’esclusione dell’acqua dall’obbligo di cessione ai privati. In sostanza si ripropone tout court la legge Ronchi-Fitto, il cui articolo 18bis è stato abrogato dalla consultazione referendaria.

Punta al sodo il senatore del Pd Enrico Morando, firmatario dell’emendamento 25.0.2. Nel testo si chiede l’inserimento di un nuovo articolo nel decreto sulle liberalizzazioni, il 25 bis. Obiettivo dichiarato è la revisione della tariffa dell’acqua, reintroducendo – con altre parole – almeno parte della remunerazione del capitale investito abrogata dal secondo quesito dei referendum di giugno.

Morando, nel testo presentato al Senato, chiede di riconoscere ai gestori il “costo finanziario della fornitura del servizio”, mantenendo sempre e comunque “l’equilibrio economico finanziario” della gestione. Ovvero i due pilastri del sistema privato dell’acqua. E’ firmato dal senatore Daniele Bosone, Pd, un altro emendamento che ripropone una norma contenuta nella bozza del decreto Monti, poi cassata dopo l’opposizione del movimento per l’acqua pubblica. L’emendamento 25.105 prevede in sostanza che i servizi idrici possono essere gestiti solo da società di capitale, azzerando di fatto l’esperienza della giunta De Magistris, che nei mesi scorsi ha deliberato la creazione di un ente non economico – Abc Napoli – per sostituire la Arin Spa nella gestione dell’acqua.

lunedì 13 febbraio 2012

.........e quattro!

Marco Doria
Marco Doria, candidato targato SEL e sponsorizzato da Don Gallo
Dopo Pisapia, Zedda e l'IDV De Magistris, auguriamo a Marco Doria di vincere il Comune di Genova.
Questo dimostra che l'era dei partiti obsoleti, come dice Beppe Grillo, e parrucconi come diciamo noi, è ormai finita: nelle prossime elezioni vinceranno i volti nuovi dei movimenti e dell'associazionismo.
Anche a Borgomanero abbiamo un volto nuovo da proporre; non appartiene all'apparato politico lontano dalla gente comune, ma parla il linguaggio pratico e semplice dei volontari e di coloro che ancora sognano un paese migliore.
Coraggio Manuel, ce la puoi fare, sei giovane, colto e hai un cuore  grande così!!


 


Condividiamo l'opinione di Antonio Di Pietro

eternit Non deve restare unoasi di giustizia nel desertoLa sentenza emessa oggi al processo di Torino contro i vertici della Eternit è un atto di civiltà di importanza storica per il nostro Paese e per il mondo intero. Non restituirà le vittime ai loro familiari ma crea una speranza per il futuro.
Per la prima volta sono stati condannati per il reato di disastro ambientale doloso e omissione dolosa di cautele i massimi vertici di un’azienda responsabile di migliaia di morti, il miliardario svizzero Stephan Schmidheiny e il barone belga Louis de Cartier.
Per anni questi padroni fatto lavorare i loro operai senza nemmeno avvertirli del rischio mortale che correvano stando a contatto con l’absesto, il materiale venefico contenuto nell’amianto. Per mantenere alti i loro profitti hanno steso una cortina di silenzio che ha moltiplicato il numero delle persone esposte al veleno.
Mi auguro che abbiano la decenza di non dire una parola tutti quegli esponenti del centrodestra che oggi stanno cercando di rifarsi una verginità appoggiando il governo Monti ma ieri, per salvare il loro capo, erano pronti a votare quel processo breve (leggi prescrizione breve) che avrebbe messo fortemente a rischio anche il processo che si è concluso oggi.
Anche così, del resto, le vittime degli stabilimenti di Bagnoli e di Rubiera non hanno potuto ottenere giustizia perché nel loro caso il reato è stato prescritto e l’ingiustizia che subiscono offende le nostre coscienze.
Mi auguro anche che questa sentenza storica non resti un’oasi di giustizia nel deserto dell’ingiustizia sociale. Ci sono molti altri casi simili in Italia, a partire da quello dell’Ilva di Taranto, e molte migliaia di lavoratori corrono ogni giorno gravissimi rischi. Bisogna intervenire con la massima urgenza e severità, facendo rispettare le leggi che ci sono e varandone di nuove, come quelle che abbiamo presentato in materia noi dell’IdV. Solo così riporteremo in Italia un po’ di rispetto per la vita e la salute dei lavoratori.

 

martedì 7 febbraio 2012

"Ogni scarrafon'è (b)bello a mammà soja".

Il posto fisso per Monti è monotono
Ma la figlia del ministro Fornero ne ha due
Silvia Deaglio, 37 anni, risulta professore associato alla facoltà di Medicina dell’Università di Torino. Il secondo impiego è quello di responsabile della ricerca presso la HuGeF, una fondazione attiva nel campo della genetica
Il ministro del Lavoro che ha un figlia con doppio lavoro e per giunta nella stessa università torinese di mamma e papà. Silvia Deaglio, 37 anni, risulta così ricercatrice in oncologia e professore associato alla facoltà di Medicina dell’Università di Torino. Il secondo impiego è quello di responsabile della ricerca presso la HuGeF, una fondazione attiva nel campo della genetica, genomica e proteomica umana.

La figlia del ministro ha preso a insegnare medicina, a soli 30 anni, proprio nella stessa università in cui insegnano economia il padre Mario e la madre neoministro.

Ma anche l’altro posto fisso che affligge Silvia è sotto tiro. Dietro l’incarico presso la “Human Genetics Foundation” ci sarebbe ancora lo zampino di mamma. Solo perché la fondazione è stata creata dalla Compagnia di San Paolo di cui la Fornero era vicepresidente, dall’università di Torino in cui insegnano i genitori e dal Politecnico di Torino il cui rettore era nel consiglio direttivo della Fondazione, fino a che non è diventato ministro dell’Istruzione con il nome di Francesco Profumo. Sarà che Torino è piccola. E che – come scrive Dagospia – la figlia del ministro è “l’incarnazione del ceto accademico-bancario della sinistra liberale sabauda” (e lei, per non smentire l’alto lignaggio, ha sposato un alto dirigente di banca, Giovanni Ronca, già responsabile dell’area Nord–ovest di Unicredit). Ma queste son chiacchiere da bar, gossip, tutto fumo.

Per diradare nebbie e dubbi bisogna scorrere tutto il curriculum senza fermarsi all’intestazione. Si scopre allora che Silvia il suo successo lo merita tutto quanto perché è una calamita di fondi pubblici e privati, un prodigio della natura nel finanziare la ricerca. Soprattutto la propria. In un Paese che investe in questo campo meno dell’1% del Pil Silvia Deaglio è riuscita a ottenere dai ministeri della Salute e della Ricerca quasi un milione di euro in due anni (500mila nel 2008, 373.400 e 69mila nel 2009). Le briciole arrivano dalla Regione Piemonte con finanziamenti a progetti per 12mila e 6mila euro. Altrettanto frenetica l’attività di ricerca fondi per il secondo posto fisso, dove l’intervento delle “alte sfere” è palese. La Compagnia di San Paolo, quella “vicepresieduta” dalla mamma, nello stesso biennio ha finanziato a Silvia un progetto di ricerca da 120mila euro divisi in due trance da 60mila. Nel 2010 la fondazione “Human Gentics Foundation”, creatura della Compagnia stessa, ha garantito il posto da responsabile di unità di ricerca affidandole un progetto da 190mila euro. Silvia, alla fine dei conti, è una donna da un milione e mezzo di euro. A fronte di tutto questo ha pubblicato su Blood, la bibbia mondiale della ricerca sulle malattie del sangue.

sabato 4 febbraio 2012

Il Circolo SEL "Peppino Impastato" aderisce all'iniziativa di:

 

Associazione Nazionale Partigiani d’ Italia

Sezione “ Oreste Pajetta “ Taino


Con il patrocinio di:  Associazione Culturale “ Elvira Berrini Pajetta”


68° Anniversario della Battaglia di Megolo

L’ A.N.P.I di Taino parteciperà alle manifestazioni per il 68° Anniversario della Battaglia di Megolo che si svolgeranno a Omegna e a Megolo domenica 12 febbraio 2012.
Comunicare le adesioni a :

ü Pino Silocchi 0331 956612
ü Tullio Berrini 0331957362
ü Natalina Pizzetti, Centro Bielli
ü Elio Ghiringhelli 335 6059509
ü Lia Barbazza 0331 956114

Ore 8,00:  partenza in pullman da Piazza Pajetta.

Ore 8,30:  a Maggiate deposizione omaggio floreale alla  lapide in ricordo di Antonio Sist.
Ore 9,00:  a Omegna S.Messa nella parrocchiale di S.Ambrogio a ricordo dei caduti.
Ore 10,00: partenza corteo da Piazza Beltrami e omaggio floreale ai monumenti.
Ore 11,00: al Teatro sociale orazione ufficiale
Ore 12,45:  Pranzo a Villa d’Ossola presso il ristorante ”Serenella”.
Ore 15,00: A Megolo, Commemorazione,visita al cippo del Cortavolo per chi lo desidera.  Deposizione omaggio floreale sulla tomba di Gaspare Pajetta.
Ore 17,00: ad Anzola  deposizione omaggio floreale  in  ricordo  di Riccardo Mira d’Ercole.

La quota di partecipazione, comprensiva del pranzo è di 35 €.
PRANZO presso il ristorante La  Serenella, Via Rovaccio, 45, Villadossola
Tel. 0324.512886  www.laserenellavilladossola.it
Il Direttivo dell’ A.N.P.I tainese si augura una calorosa presenza alla manifestazione, come di consueto.
A tutti i partecipanti un cordiale arrivederci a domenica 12 febbraio.
  
Per info e  adesioni contattate Rino cell: 3936521024 
Si  assicura per la partenza un punto di ritrovo anche a Castelletto 

giovedì 2 febbraio 2012

Dal posto fisso al posto fesso

Il freddo siberiano, il Buran, che avvolge questo povero paese è perfino tiepido se paragonato allo humor di Monti.
 
Una volta c’erano le annunciatrici, oggi c’è Mario Monti. Finisci di lavorare, metti a letto i bambini e quando accendi la televisione per tirare finalmente il fiato ti trovi sempre davanti lui. Immancabile. Che ti annuncia catastrofi con il suo humour islandese. Altro che politici, questi tecnici te li ritrovi in Tv a ogni piè sospinto, per evitarli non ti restano che le aste di orologi e i film porno.

Il posto fisso, dunque… una noia. Una zavorra. E pensare che a me invece pareva una conquista. Ma se lo dici ti guardano tutti come una specie di brontosauro. All’estero, ti rispondono, la flessibilità ormai è una religione. Siete sicuri… e la Francia? E la Germania che pure è la locomotiva d’Europa? No, impossibile avanzare dubbi. Il posto fisso è la causa di tutto, anche del buco nell’ozono.

Già “all’estero”… ma se all’estero ci sarà pure la flessibilità, ci sono anche agenzie di collocamento (come in Danimarca) che si prendono cura dei disoccupati, cercano seriamente un posto (e spesso lo trovano) e si occupano dell’aggiornamento di chi è senza lavoro.

All’estero ci sarà la flessibilità, ma esistono indennità che consentono di guardare con meno terrore ai periodi di disoccupazione.
All’estero ci sarà la flessibilità, ma soprattutto è meno diffusa la piaga della raccomandazione. Chi merita un posto di lavoro sa che potrà trovarlo. E fa carriera chi se lo merita davvero.
All’estero ci sarà la flessibilità, ma non è così diffusa la piaga del lavoro nero che di fatto ha reso i giovani italiani già molto più flessibili dei loro colleghi stranieri.
All’estero ci sarà la flessibilità, ma i concorsi pubblici sono più trasparenti e non accade come, per dire, nelle università italiane dove tante cattedre finiscono a parenti e amici che sono docenti a trent’anni. E anche meno.
All’estero ci sarà la flessibilità, ma non c’è la corruzione che mina la competizione tra le imprese e provoca un danno all’economia ben maggiore del posto fisso.
All’estero ci sarà la flessibilità, ma le imprese investono in ricerca e sviluppo molto più che in Italia.

Ecco, quando tutti questi nodi saranno risolti si potrà anche parlare del posto fisso. Ma chissà, forse a quel punto ci accorgeremmo che non sarebbe nemmeno più necessario intaccare le tutele per i più deboli.

È più facile, però, cominciare ad attaccare l’anello più debole. Addirittura annunciando le riforme dalla televisione… e non importa delle tensioni e dell’allarme sociale che si possono suscitare. Viene quasi da rimpiangere le barzellette di Berlusconi…

Vedrete, alla fine andrà così: addio alle tutele che abbiamo in Italia, senza le garanzie che hanno all’estero. Insomma, dal posto fisso passeremo al posto fesso.

martedì 31 gennaio 2012

Indovina indovinello: sarà questo o sarà quello?

                                              
                                                        
                           Penati PD
    Lusi PD                        Tedesco  PD                

Chi sarà  il prossimo?

"Vi racconto Mani Pulite"

«Mike» e «Papa», così si parlavano in codice alla radio durante le indagini sfociate nell'arresto che avrebbe travolto un'intera classe politica. MP era la sigla che finiva nei verbali, Mike-Papa, quando Mani pulite ancora non esisteva. «Lui era Mike e io Papa – ricorda Di Pietro –. MP nasce prima di Mani pulite. Quel nome l'ho inventato io dopo, quando è stato il momento di decodificare la sbobinatura delle intercettazioni ambientali fatte a Chiesa. Bisognava spiegare quella sigla, che ricorreva un po' ovunque nelle carte. Dire che lui era Mike e io addirittura Papa? Mi sono inventato Mani pulite».
S'è inventato Mani pulite. Tonino «Papa» Di Pietro è fatto così, prendere o lasciare. «Quando arrestammo Chiesa, a Borrelli (all'epoca procuratore capo di Milano, ndr) obbiettarono subito: "Ecco, adesso che ci sono le elezioni, si fanno questi arresti". Lui rispose dicendo che non era affatto così, che Chiesa era stato colto in flagrante, che sarebbe stato fatto il processo per direttissima e si sarebbe chiuso tutto lì. Ma io la direttissima non la feci, aspettai dopo le elezioni e poi andai avanti». Fu un domino di arresti, un colpo sparato a Milano ma che deflagrò in tutta la sua potenza nella capitale, il cuore del potere politico. Due anni di indagini forsennate, tra i peana dei sostenitori e i feroci attacchi dei detrattori. Nessuna mezza misura. Un milione di pagine di atti. «Ma Mani pulite non è stata la mia inchiesta più grossa – racconta l'ex pm –. No, quella più grossa è stata la difesa dal dossieraggio fatto contro di me in seguito a Mani pulite: quattro anni di lavoro e ben due milioni di pagine tra i fascicoli. E vorrei ricordare come è finita: dieci proscioglimenti perché il fatto non sussiste in fase istruttoria, non sono mai andato a processo».
Ma i processi si fanno anche fuori dalle aule di giustizia, e vent'anni dopo la stagione che mise sul banco degli imputati Tangentopoli, la rilettura di quella primavera giudiziaria divide ancora. Se per molti la toga dei magistrati milanesi era quasi un mantello da eroe, per altri non era che la cappa sotto la quale si nascondeva la mano di un grande vecchio.
«Eutanasia di un potere». De Benedetti, nel libro scritto dal giornalista Marco Damilano, torna a battere il tasto di un'accusa reiterata nei confronti del pool, e cioè che Mani pulite in qualche modo risparmiò il Pci.
«Io vorrei confrontarmi con De Benedetti guardandolo in faccia, perché deve spiegare anche a me che cosa vuol dire che la sinistra è stata aiutata. Mani pulite l'ho fatta io, e io non sono stato né etorodiretto né imboccato da alcuno. In quell'inchiesta, come in tutte le inchieste e come in tutte le cose della vita, qulache volta ho sbagliato bersaglio, ma questi errori non rientravano certo in un'azione dolosa, omissiva o abusiva. Mani pulite non è nata per fini politici, non si è sviluppata per fini politici e tantomeno ha perseguito fini politici. È stata un'inchiesta giudiziaria come altre, che di politico aveva gli indagati».
I comunisti hanno avuto meno conseguenze giudiziarie rispetto ad altri, come lo spiega?
«Lo spiego subito, e non sulla base di considerazioni soggettive, ma sulla base di atti. Ricordo che durante un interrogatorio ci feci proprio la pizza (un grafico-torta, ndr): ogni anno le imprese davano una percentuale rispetto al tipo di lavori che ottenevano. Dato cento il totale, la pizza era divisa in quattro parti. Ogni cento lire di tangenti, 25 andava alla Democrazia cristiana, 25 ai socialisti e un altro 25 al sistema dell'amministrazione: per intenderci, il ministro competente, assessori, consiglieri, sindaci, chi di fatto firmava gli atti necessari per appalti e quant'altro. Restava ancora un 25, ma non si trattava di soldi. No, qui si parlava di lavori o di servizi assegnati al mondo che ruotava attorno alle cooperative. E tu vallo a tradurre in un articolo di reato... Io davo tutto a Davigo (Piercamillo Davigo, storico componente del pool, di cui era considerato la mente, e noto anche come il "dottor Sottile", ndr) e lui mi chiedeva: "Che reato è?". Risposta: "Reato di porcata, poi vedi tu che veste penale dargli". A volte si riusciva e a volte no, ma perché c'erano difficoltà istruttorie oggettive. Questi a sinistra si erano già ingegnerizzati, erano avanti. Non mi son fatto paura di Craxi, avrei dovuto farmi paura di Occhetto? Altro che grande vecchio. Però, adesso che ci ripenso, uno c'era...».

Chi?

«Il presidente Cossiga. Nel periodo di Mani pulite ogni mattina alle cinque, massimo alle sei, mi suonava il telefono: era lui. Non parlava mai dell'inchiesta, non mi ha chiesto mai nulla che avesse un vago accenno al fronte giudiziario. Mi domandava come stavo, cosa avevo mangiato, domande del genere. Aveva capito come mi stavo muovendo, aveva capito che stava cambiando il mondo».
Dopo vent'anni, che lettura dà di quella stagione e di quell'inchiesta, e anche delle conseguenze che ha avuto, da magistrato e da politico?
«Mani pulite è stata una potente radiografia del Paese, la diagnosi di una profonda e radicata malattia sociale: la corruzione. Ma bisogna distinguere fra Tangentopoli e Mani pulite. Tangentopoli è quella città virtuale in cui, dal Dopoguerra al '92, il rapporto tra i poteri è stato travisato e inquinato dal fatto che il sistema degli affari e quello della politica, corrompendosi tra loro, hanno indebitato il nostro Paese, hanno reso la nostra pubblica amministrazione inefficiente. L'essenza di tutto questo è stata la P2».
Mani pulite è partita nel '92. E prima?
«Fino ad allora l'anomalia nei rapporti tra affari e politica non aveva assunto e non poteva assumere valenza penale».

Vale a dire che si pagavano tangenti senza commettere reato?

«Il sistema si era, diciamo così, affinato. Si agiva in modo da non rendere i fatti penalmente rilevanti. Mi spiego meglio. Ogni tanto capitava che qualcuno venisse scoperto, preso e condannato, ma tutto finiva lì. Si procedeva per un fatto circoscritto. Ma la politica capì che in questo modo si correvano dei rischi, che qualcuno prima o poi sarebbe potuto cadere, e allora ideò il cosiddetto sistema Cusani. Le imprese si assumevano l'onere percentuale di pagare, ciascuna in relazione al proprio fatturato, un tot ai vari partiti; questi ultimi, da parte loro, sapevano quali erano le società di riferimento, che costituivano una sorta di cartello: chi stava dentro lavorava, chi stava fuori no. Le gare d'appalto venivano fatte, ma si sapeva già chi ne sarebbe uscito vincitore. Esempio: se un appalto valeva cento, tutte le società partecipavano alla gara presentando preventivi per mille. Tutte tranne una, che correva con un preventivo di 999. Sicuramente era il prezzo inferiore e quindi quest'impresa si aggiudicava i lavori, però quel 999 era ben più alto di cento. In questo modo l'appalto, alla pubblica amministrazione, veniva a costare dieci volte tanto. È qui che è caduto, nei quarant'anni della storia italiana, l'indebitamento pubblico: nell'aver portato all'esasperazione il costo. Pensiamo alla Tav: per la realizzazione di un chilometro dell'Alta velocità in Francia si spendono nove milioni di euro, in Germania 11 e in Italia 48. A tutto questo, poi, si aggiungeva un'ulteriore anomalia: tra chi pagava e chi riceveva il denaro c'erano quelli che lo consegnavano, e allora ogni volta succedeva che usciva cento e a destinazione arrivava cinquanta. Per l'affare Montedison, Gardini, quando si accordò con Forlani, consegnò al suo uomo di fiducia un miliardo e mezzo di lire da far avere alla Dc: il suo uomo, a sua volta, passò il denaro a un terzo, e così via. Alla fine alla Dc arrivò mezzo miliardo; e se si considera che da via Del Gesù alla sede della Montedison ci sono settecento metri...».
Lungo la strada si è perso circa un milione e mezzo di lire al metro...
«In pratica sì, mangiavano un po' tutti. Nel tragitto da Gardini a Citaristi un bel po' di soldi si è volatilizzato. Ma qui mi sento di testimoniare sull'onestà personale di Citaristi. Io gli ho inviato 71 avvisi di garanzia, un record, ma non ho mai trovato una sola lira incassata da lui. Citaristi era conscio del proprio ruolo, era stato messo lì perché di lui si fidavano, il partito sapeva che non prendeva nulla per sé, a differenza di tanti altri segretari amministrativi che invece lo hanno fatto».
Torniamo a Tangentopoli.
«Il dramma è che pagare per ottenere un lavoro era diventato qualcosa di scontato. Io la chiamavo "dazione ambientale". La tangente non era necessario né chiederla né proporla: era automatica, "ambientale", appunto. Coniai questo termine dopo aver interrogato un imprenditore varesotto che lavorava nel settore edile-stradale, con appalti soprattutto nel Milanese. Lo sentii in ospedale, dov'era ricoverato: otto ore di domande, avevo le carte che parlavano, ma quello niente, un altro po' e confessavo io. Quest'uomo aveva fatto la guerra, non cavai un ragno dal buco. Alla fine mi ricordo che, sconsolato, chiusi il fascicolo e feci per andarmene. Allora lui mi prese la mano e disse: "Giovanotto, mi pare che lei sia in buona fede. Ho ottant'anni, vorrei che non succedesse più tutto quello che è successo a me, però non ci provi più a pretendere da me le cose, perché io non ho paura di lei: ho fatto la prigionia in guerra, si figuri. Si rimetta seduto che glielo spiego io come stanno i fatti". Allora io per farmi bello tirai fuori di nuovo il fascicolo con le contestazioni, erano circa una cinquantina, e cominciai con la prima. E lui mi rimbrottò: "Lasci stare, è dal '48 che faccio questo lavoro, le dico io i tre casi in cui non ho pagato, così facciamo prima". E mi raccontò tutto. Subito dopo interrogai un ragazzo di 29 anni. Ricordo che si mise seduto nel mio ufficio e otto secondi dopo aveva già confessato. Ma io dovevo pur darmi un certo tono, era durato tutto troppo poco. Allora cercai di andare oltre, di capire, e gli chiesi: "Perché ha pagato?" Risposta disarmante: "Perché così faceva papà prima di me". Dazione ambientale, si pagava a prescindere».
E oggi?
«L'amarezza dopo vent'anni e che tutto è cambiato, ma nulla è cambiato. La Tangentopoli si è ampliata, il sistema si è ingegnerizzato ed è più difficile da aggredire. In questi anni, poi, ha avuto una copertura perché si è fatto credere, e si continua a far credere, che si tratta di una guerra tra bande, tra magistratura e politica. In realtà è una guerra tra guardia e ladri, dove non tutti i politici sono ladri e non tutti i magistrati sono guardie».

Appunto. Qualche peccatuccio l'avranno commesso pure i magistrati. E magari anche qualcosa di più.

«Io voglio salvare la magistratura, non le singole azioni. Certo, ci sono stati magistrati che non hanno fatto il loro lavoro, penso a Metta, Pacifico o Squillante, però il cancro l'abbiamo diagnosticato. Toccava alla politica curarlo. Bisognava fare un'opera di prevenzione. Con Mani pulite è come se si fossero eseguiti degli interventi chirurgici, ma se a questi non segue una terapia, il tumore torna. Ed è tornato, sta portando alla morte istituzionale, economica ed etica del nostro Paese».
Qual è oggi il rapporto tra denaro e potere?
«Ieri il potere serviva per fare denaro, oggi il denaro serve per raggiungere il potere. Si sono invertiti i ruoli. Il politico si è fatto imprenditore e viceversa, non ha più bisogno di pagare per ottenere qualcosa: fa tutto da sé, in pieno conflitto di interessi. Non parlo solo di Berlusconi, lui è il caso più evidente. Oggi le imprese fanno le consulenze, i finanziamenti vengono messi a bilancio. Tutto è ufficializzato. Ci sono multinazionali italiane che alla vigilia delle elezioni riuniscono il Consiglio d'amministrazione, deliberano e mandano soldi ai partiti in proporzione al peso dei singoli gruppi in Parlamento, a tutti. Li hanno mandati anche noi dell'Italia dei valori, li abbiamo rispediti al mittente».

Insomma siamo punto e a capo. Però all'epoca di Mani pulite Di Pietro era un magistrato e faceva le radiografie di Tangentopoli, oggi sta dall'altra parte, con la classe politica.

«Già, ma in questi vent'anni si è combattuto più il medico che la malattia, si è buttata in uno scontro tra politica e affari quella che doveva restare solo una questione giudiziaria. Questo è stato il dramma. Quando si è capito come si scopriva la malattia, si è posta in essere una serie di azioni per non farla più scoprire. Risultato: la malattia è degenerata, ma gli strumenti a disposizione per combatterla sono diventati minori. Uno su tutti: la depenalizzazione del falso in bilancio. Sa, tutta Mani pulite si è basata su un'intuizione che, sì, rivendico a me stesso: ho creato una tecnica d'indagine inversa a quella dei miei predecessori. Loro cercavano di scoprire chi aveva preso i soldi, cosa che non riuscivano a fare quasi mai perché, essendo la corruzione e la concussione reati in concorso, c'era un'omertà obbligata tra i due soggetti coinvolti. Io invece ho ignorato questo aspetto: sono partito dai falsi in bilancio. Quando scoprivo che c'erano cifre non giustificate, andavo dall'imprenditore e gli dicevo: "O il reato te lo tieni tu, procedura fallimentare e societaria, o mi dici che fine hanno fatto i soldi". Agli industriali, specialmente questi al Nord, che si spezzano la schiena per l'azienda, non gli facevano paura tre giorni di carcere. No, gli faceva paura l'idea di veder morire la loro creatura, l'impresa, per il fatto di aver pagato. Non dimenticherò mai quell'imprenditore che viveva a Milano Torre Velasca: andammo a suonargli il campanello la mattina presto e cominciò a confessare al citofono. "Fermati", gli dissi, "aspetta, scendi giù almeno". E lui: "No, non venire su", mi pregava. Capisce? Oggi non si potrebbe più fare. La legislazione ha prodotto una lavanderia industriale, per cui è stato sbiancato il reato».

E allora che si fa, alziamo bandiera bianca?

«No, ma la cura non la può fare questo Parlamento, perché, per farla da sé, dovrebbe suicidarsi. Io la mia proposta l'ho già depositata da tempo, ma figuriamoci: l'attuale Parlamento è in totale conflitto d'interessi. Solo alla Camera, su oltre seicento deputati, 150 sono avvocati e 150 imputati, non puoi chieder loro la luna».
In conclusione, quand'era magistrato la politica a un certo punto l'ha ostacolata e ora che è in politica, il problema è sempre lo stesso?
«Ricordo bene il 2 settembre del '92, quando Craxi disse: "Non è tutto oro quello che luccica". Fu in quel preciso momento che capii che da volpe sarei diventato presto lepre. E così avvenne, anche sulla stampa. Alla fine, però, è stata anche una fonte di guadagno, per via dei risarcimenti. Un giornale a un certo punto, parlando di me, avanzò dei sospetti su come avessi potuto permettermi una certa casa. Al processo per diffamazione che seguì, risposi producendo gli assegni ricevuti dallo stesso giornale come risarcimento per un'altra diffamazione».


Grazie all'On. Di Pietro per il contributo.

sabato 28 gennaio 2012

Odd out

                                                                   Quiz: Chi non c'entra?

venerdì 27 gennaio 2012

Quanto dolore!

Omocausto, lo sterminio dimenticato dei gay
Contraddistinti da un triangolo rosa cucito sulla divisa a righe, gli omosessuali affollavano i campi di concentramento sparsi in tutta Europa, subivano umiliazioni e torture, venivano sottoposti a folli sperimentazioni pseudoscientifiche fino alla morte. Una pagina del nazismo troppo spesso tralasciata
Almeno settemila morti e altre decine di migliaia di persone in galera. Sono i numeri, difficilissimi da stimare, dell“Omocausto”, quella pagina ancora troppo nascosta dello sterminio nazista nei confronti degli omosessuali.

Contraddistinti da un triangolo rosa cucito sulla divisa a righe, i gay affollavano i campi di concentramento sparsi in tutta Europa, subivano umiliazioni e torture, venivano sottoposti a folli sperimentazioni pseudoscientifiche fino alla morte (la mortalità dei prigionieri omosessuali è stimata al 60%). Una pagina strappata della storia perché il pregiudizio omofobico, esaltato dal regime nazista fino a punire persino le “fantasie omoerotiche”, non era certo assente negli altri paesi, neppure in quelli che si opposero al Terzo Reich durante il secondo conflitto mondiale.

E allora, quando i cancelli di Auschwitz e degli altri lager vennero abbattuti dai blindati alleati, molti dei superstiti marchiati con il triangolo rosa preferirono tacere il vero motivo del loro internamento, diventando vittime senza voce e senza giustizia.

L’ossessione nazista per i gay si era palesata già con la “notte dai lunghi coltelli”, quando Hitler spazzò via le SA (truppe d’assalto, ndr) e il suo capo, l’omosessuale Ernst Rohm. Per il fuhrer esisteva una vera e propria “congiura omosessuale che minava la concezione normale di una nazione sana”. Deliri che non stupiscono nemmeno oggi, purtroppo, visto che ancora in troppi paesi al mondo l’omosessualità è considerata ancora una devianza, una malattia, quando non un reato punibile anche con la pena di morte.

Ma il dramma dei gay nei campi di concentramento fu duplice: da un lato le torture degli aguzzini nazisti, dall’altro l’isolamento operato dagli altri prigionieri. I gay erano ultimi tra gli ultimi, paria in quell’universo mostruoso che era il lager. Molti di loro vennero castrati, alcuni addirittura su propria richiesta, per dimostrare al regime l’intenzione di “guarire dalla malattia” e sperando così di tornare a casa. Molti altri vennero usati come cavie per esperimenti clinici, come l’impianto di una ghiandola artificiale di testosterone che, nelle intenzioni dei macellai del Reich, avrebbe dovuto sanare la devianza omoaffettiva. Centomila omosessuali furono coinvolti dalle purghe naziste: 60mila scontarono la pena (dai 5 ai 10 anni) in carcere, dai 10 ai 15mila furono internati nei campi di concentramento. Numeri importanti di un Olocausto dimenticato.

Lo sterminio dei triangoli rosa, così come quello di ebrei, rom, disabili e avversari politici, ha rappresentato lo scoperchiamento del vaso di Pandora, la valvola di sfogo di pensieri inconfessabili che non erano estranei alla società dell’epoca, in Germania come in Italia, in Inghilterra come in Francia o in Russia. E Berlino, che fino all’avvento del nazismo era stata la capitale delle libertà dell’epoca, si trasformò di colpo in base mondiale del rigurgito omofobico, inferno in terra di uomini e donne che pagavano con la vita la loro inclinazione sessuale.

grazie a Domenico Naso

venerdì 20 gennaio 2012

Nando Dalla Chiesa, Presidente della Commissione Antimafia a Milano, ci invita a leggere "Mafia A Milano"


«Per i clienti del bar era soltanto un signore educato
che non mancava mai di salutare con cortesia.
Per gli inquirenti era un padrino di prima grandezza
che voleva rendere la ’ndrangheta lombarda autonoma
dalle famiglie calabresi. E così è stato “licenziato”.
Con un proiettile alla nuca».

DESCRIZIONE
La mafia non esiste, dicono i governanti padani, come i loro colleghi del sud nel secolo scorso. Con poche eccezioni, anche le associazioni imprenditoriali e professionali non la vedono. Chi nega, chi minimizza, chi ostenta stupore di fronte alle indagini che svelano densi intrecci tra criminalità, mondo degli affari e amministratori pubblici. Eppure a Milano e in Lombardia la mafia c'è, ben radicata da oltre mezzo secolo: i pionieri della 'ndrangheta e di Cosa nostra arrivarono negli anni Cinquanta; seguirono gli uomini della camorra e della Sacra corona unita. Da allora ne hanno fatta di strada.
Mafia a Milano racconta, per la prima volta in modo organico e completo, una storia di successo, di arricchimento, di emancipazione. La stagione dei sequestri di persona, la finanza nera di Sindona e Calvi, l'arresto di Liggio, i colletti bianchi del narcotraffico che facevano riferimento allo "stalliere" di Berlusconi e Dell'Utri, i quartieri di periferia controllati e militarizzati. Fino ai grandi processi degli anni Novanta, conclusi con la condanna di centinaia di boss e soldati ormai naturalizzati nel cuore del nord.
Nel nuovo millennio, le cosche dettano legge nei cantieri, accumulano enormi patrimoni immobiliari, guidano holding familiari. Complice il silenzio che li circonda, i clan trapiantati a Milano e dintorni si sono riorganizzati e rafforzati. Per dare l'assalto all'economia e alla politica.

giovedì 19 gennaio 2012

A sua insaputa!

Vi proponiamo l'articolo apparso su "Il Fatto Quotidiano" del 18/01/12 a firma Marco Travaglio, che puntualmente dipinge l'italiano medio con i suoi vizi e difetti, naturalmente a sua insaputa. 

"Casta Crociere
Ora diranno che noi italiani non riusciamo a diventare seri nemmeno nelle tragedie, anzi riusciamo subito a trasformarle in macabre farse. Gli altri hanno il Titanic, noi la Concordia. L’italianissima “nave più grande del mondo” che, già per com’è posizionata, mezza sott’acqua e mezza sopra con uno squarcio nella chiglia, è la migliore icona del paese che siamo. Più che un naufragio, una parabola.

Del capitano Schettino sappiamo tutto e forse, si spera, anche troppo. Ma non era mica solo, sulla nave. Invece è come se lo fosse: se il comandante impazzisce, o si ubriaca, o picchia la testa, non c’è niente da fare. Nessun controllo, nessuna valvola di salvaguardia. Un uomo solo al comando, con potere di vita e di morte su tutti gli altri. E, se dà via di matto o semplicemente si fa gli affari suoi, peggio per noi. Vi ricorda qualcosa? Poi ci sono i passeggeri, che al “si salvi chi può” danno il meglio, ma anche il peggio. Uno, accecato dalla disperazione, strappa il salvagente al vicino e lo lascia affogare. Altri fanno a botte o calpestano la massa per arrivare prima alle scialuppe saltando la fila e, conquistato un posto sulla barchetta, scacciano i bambini o i vecchi o le donne o disabili perché “non c’è più posto”. Vi ricordano qualcuno? Il “particulare”, lo chiamava Guicciardini. Poi c’è Costa Crociere, che prima difende il comandante e poi lo scarica, dichiarandosi parte lesa perché ha fatto tutto da solo (ma proprio perché poteva fare tutto da solo Costa Crociere non è parte lesa). Vi ricorda qualcuno?

E siamo a Schettino, per gli amici “Top Gun”, che nelle interviste fa il ganassa con le battute sul Titanic. Se c’era bisogno di qualcuno che rinfocolasse i luoghi comuni sull’italiano in gita, eccolo pronto alla bisogna. Il tipico fesso che si crede furbo, ganzo, fico. Il bullo abbronzato coi ricci impomatati e i Ray-ban neri che conosce le regole e le rotte, ma è abituato ad aggirarle, a smussarle. C’è l’amico di un amico a riva da salutare a sirene spiegate? Che problema c’è, se po’ fa’. C’è da accostare per il rito dell’ “inchino” ai turisti portati dalla proloco? Ma per carità, si accosta. Accosta Crociere. Perepèèèèè. Crash! Ops, uno scoglio. E lui dov’è, al momento del cozzo? Una turista olandese giura che era al bar a farsi un drink con una bella passeggera appena rimorchiata. Perché la patonza deve girare, no? A quel punto, con la nave gonfia d’acqua, si chiama la Capitaneria per dire “Tutto ok, positivo”. Poi si parla di “guasto a un generatore”. Minimizzare, sopire, troncare finché si può. Crisi? Quale crisi? I ristoranti sono pieni, le stive pure. L’affondamento è solo psicologico, il classico naufragio percepito. Basta non parlarne e sparisce. Negare tutto, anche l’evidenza.

Infatti è la Capitaneria a informarlo che la sua nave affonda. E allora “abbandonate la nave”: lui per primo, assicurando però “stavo a poppa, ora torno sul ponte, a bordo ci sono solo 2-300 persone” (sono ancora tutte e 4 mila, però il vero bugiardo dà sempre cifre false ma precise). Il solito De Falco –c’è sempre un De Falco sulla rotta dei furbi fessi– lo sgama: “Ma lei è a bordo?”. “No”. “Vada a bordo, cazzo! È un ordine”. “Sono qua sotto a coordinare i soccorsi, ora vado a bordo”. Invece è già all’asciutto, aggrappato a uno scoglio. Verrà avvistato sulla banchina mentre aspetta il taxi per l’hotel Bahamas. Manca ancora un ingrediente: la telefonata a mammà. “Sto bene, ho cercato di salvare i passeggeri”. Come si chiama mammà? Rosa, e come se no? Lui intanto mente pure sull’ultima manovra: “L’ho fatta io per facilitare i soccorsi”. Invece l’han fatta le correnti. Poi pesca a piene mani dall’inesauribile serbatoio dello scusario vittimistico nazionale: tutta colpa di “uno sperone di roccia non segnalato, la carta nautica dice che non doveva essere lì”.

Il solito complotto degli speroni rossi, degli scogli spuntati a sua insaputa: se Vespa lo chiama a Porta a Porta, lui tira fuori il plastico. Non resta che svignarsela nella notte, quatto quatto, “per senso di responsabilità”, lasciando fare agli altri, ai tecnici. Vi ricorda qualcuno? Tipo un altro che aveva cominciato sulle navi da crociera?"

Il Fatto Quotidiano, 18 Gennaio 2012